Lost in inflation: attenti ai prezzi e ai tempi della ripresa
Inflazione. Deflazione. Reflazione. Ultimamente sono queste tre le parole più ricorrenti nelle discussioni economiche, quando esperti e addetti ai lavori ragionano sulle possibilità, i tempi, i sintomi e i segnali di una possibile ripresa post-Covid. Può essere interessante, soprattutto per chi è a secco di cultura finanziaria, capire di che cosa stiamo parlando. Noi siamo qui proprio per questo, e proviamo a farvela breve.
Tutto ruota intorno ai prezzi di ciò che compriamo
Che si parli di inflazione, deflazione o reflazione, il tema di fondo è sempre lo stesso: i prezzi delle cose che compriamo. Quando c’è inflazione, questi prezzi salgono; quando c’è deflazione, scendono. Con, in entrambi i casi, complicanze di non trascurabile portata.
- Nelle economie di mercato, i prezzi di beni e servizi possono variare in qualsiasi momento: alcuni salgono, altri scendono. Si parla di inflazione quando si ha un rincaro di ampia portata, non limitato a singole voci di spesa. E quando l’inflazione aumenta, un’unità di moneta permette di acquistare meno beni e servizi rispetto a prima: si dice infatti che la moneta perde potere d’acquisto. L’aumento dei prezzi ingenera una richiesta di aumento dei salari da parte dei lavoratori, dunque un aumento dei costi per le aziende. Una spirale di questo tipo, se lasciata libera di dispiegarsi, può portare problemi: ecco perché obiettivo primo delle banche centrali è generalmente quello di contenere l'aumento dei prezzi entro un certo tetto.
- La deflazione è l’esatto contrario dell’inflazione: consiste infatti in una diminuzione del livello generale dei prezzi. Il che, in prima battuta, ci garba: posso comprare un nuovo smartphone spendendo meno. Ma la deflazione implica una più debole domanda di beni e servizi, dunque una frenata della spesa di consumatori e aziende. Ciò si ripercuote sui ricavi delle imprese, anch’essi generalmente in calo. Ne deriva il tentativo da parte delle imprese stesse di ridurre i costi, per esempio quelli per il lavoro. Come si vede, alla fine resta poco di cui rallegrarsi.
E la reflazione? Ci arriviamo.
Nessuno mette l’inflazione in un angolo
O forse sì? Possono senz’altro farlo le banche centrali, il cui primo obiettivo è proprio quello di contrastare l’eccessivo aumento dei prezzi di beni e servizi. Ma con la crisi economica Covid-correlata, le autorità monetarie hanno dovuto rinviare ancora una volta il ritorno alla normalità dopo le turbo-iniezioni di liquidità rese necessarie dalla grande crisi finanziaria prima e dalla crisi del debito sovrano poi. E la lotta all’inflazione eccessiva, in un contesto di totale assenza di fiammate inflazionistiche da combattere, è passata in secondo piano.
Lo scorso autunno, la Banca Centrale Europea ha fatto sapere che permetterà all’inflazione di superare la soglia del 2% fissata nel 2003. Una variazione (temporanea) della sua politica fino a quel momento rigorosissima che è apparsa del tutto in linea con la nuova strategia della Federal Reserve, comunicata ad agosto. E anche se questo non trascurabile ripensamento strategico ha suscitato più d’una perplessità, fino a non molto tempo fa i dati sull’inflazione nell’area dell’euro e negli States sembravano dare ragione alle due autorità monetarie.
Inflazione in Europa e negli States: a che punto siamo?
Ma proprio mentre l’inflazione era data quasi per spacciata, eccola che riappare sui radar. A gennaio l’eurozona ha registrato un +0,9% su base annua, dopo il -0,3% – deflazione, dunque – di dicembre. Per non parlare dell’inflazione “core” – quella cioè che non prende in considerazione energia, cibo e tabacchi – la quale ha segnato un balzo del +1,4% su base annua, dopo il +0,2% di dicembre.
E negli Stati Uniti? Nel confronto anno su anno, il CPI – l’indice dei prezzi al consumo, appunto – ha messo a segno un +1,4% sia nel dato generale sia in quello “core”. Il CPI non è il termometro dell’inflazione preferito dalla Federal Reserve, che tuttavia lo monitora con attenzione anche adesso che, come abbiamo detto, la banca centrale USA accetterebbe un’inflazione superiore al 2% – il valore considerato ottimale – per un certo periodo di tempo allo scopo di supportare la ripresa.
E arriviamo così alla reflazione
Di cosa parliamo quando parliamo di reflazione? Dell’insieme di interventi messi in campo per stimolare l’economia: più moneta, meno tasse, eccetera. Tutto ciò finisce col far rimbalzare l’inflazione, un rimbalzo “buono” perché compensa il precedente calo dei prezzi. La reflazione, insomma, è un po’ l’antidoto alla deflazione.
Attenzione, perché siamo arrivati a un punto cruciale:
- dovevamo stare in guardia dall’inflazione, che poi è stata “silenziata” dalla crisi economica scatenata dalla pandemia di Covid-19;
- abbiamo quindi dovuto alzare la guardia contro un altro insidioso nemico, la deflazione, che è sintomo di malessere economico;
- banche centrali e autorità politiche a tutti i livelli stanno varando imponenti piani di aiuto, monetario, fiscale e non solo;
- questa cura, che possiamo chiamare reflazione, sta più o meno lentamente rimettendo l’economia su un percorso di ripresa.
Quale lezione portare a casa (e come investire)
Finora ha prevalso la narrazione della crescita bassa, dell’inflazione anemica e dei tassi a zero. Ma adesso, perlomeno negli Stati Uniti,sta prendendo piede una narrazione diversa, incentrata su una ripresa della crescita reale che sembra correre a ritmi più rapidi del previsto. Ovviamente, la narrazione monetaria rimane quella dominante e sembra ben radicata: ma il minimo cambiamento potrebbe causare molto rumore nel comparto obbligazionario e, a un certo punto, anche in quello azionario.
Per evitare di finire intrappolati in un vicolo cieco, è importante assicurarsi un’allocazione agile e flessibile, aumentando la diversificazione dei portafogli e rendendoli più resilienti in vista di un possibile cambio di regime. Un piano di difesa nella messa a punto del quale la consulenza di un esperto serio e preparato può decisamente fare la differenza.