Che ne sarà del petrolio in un mondo a basse emissioni?
Con il progredire della campagna vaccinale e l’allentamento delle restrizioni, la ripresa economica inizia a prendere slancio. E le quotazioni del petrolio rialzano la testa, segnando a fine giugno 2021 i massimi da tre anni. Il “merito” è soprattutto delle riaperture, con la ripresa degli spostamenti che ha ridato slancio ai trasporti, inclusi quelli aerei. E, stando alle previsioni di diversi analisti, il trend rialzista per l’oro nero continuerà nei prossimi mesi, sull’onda del rimbalzo dei consumi. L’AIE (l’Agenzia Internazionale dell’Energia) prevede che la domanda raggiungerà i livelli pre-pandemici entro la fine del 2022.
Per quanto sostenuta, però, l’attuale corsa del petrolio potrebbe essere il classico “canto del cigno”. Quello della transizione ecologica è infatti un innegabile Megatrend, in atto da tempo e destinato a consolidarsi, accelerato fra l’altro dalle preoccupazioni sempre più pressanti sul cambiamento climatico e dagli ambiziosi obiettivi di riduzione delle emissioni fissati da diversi Paesi, UE in testa.
È anche una questione di opinione pubblica: cittadini e investitori sono sempre più attenti alle tematiche ambientali e chiedono una vera e propria transizione dell’economia globale, che ancora oggi fa ricorso ai combustibili fossili per circa l’80% dell’energia consumata. Una percentuale che dunque potrebbe diminuire già nei prossimi anni.
La svolta green dei colossi petroliferi
I colossi petroliferi – soprattutto in Occidente – stanno prendendo atto della situazione: la domanda potrebbe raggiungere il picco nei prossimi decenni e poi incamminarsi su una strada di inesorabile declino. In buona sostanza, l’intero comparto si trova di fronte a una domanda esistenziale: le rinnovabili possono essere la nuova “gallina dalle uova d’oro”? E in che modo le compagnie che per decenni hanno lucrato sull’estrazione di petrolio possono convertirsi a una produzione green?
Molte aziende del settore stanno già predisponendo nuove strategie volte a reinventarsi in un futuro più verde. La britannica BP (che sta per British Petroleum) ha annunciato che nel prossimo decennio aumenterà di dieci volte gli investimenti in imprese a basse emissioni, fino a 5 miliardi di dollari all’anno, riducendo al contempo del 40% la produzione di petrolio e gas. Le europee Royal Dutch Shell, Eni, Total of France, Repsol ed Equinor hanno fissato obiettivi simili.
Una transizione a più velocità
Naturalmente la situazione, per quanto riguarda la transizione ecologica, non è omogenea in tutto il globo: alcuni Stati hanno iniziato a porre le basi per intraprendere un percorso di trasformazione del proprio sistema energetico, mentre altri restano indietro. In questo senso, l’Unione Europea è tra i Paesi più virtuosi: punta a raggiungere la neutralità climatica entro il 2050 e, per farlo, si è posta degli obiettivi intermedi per il 2030 che prevedono un taglio di almeno il 55% delle emissioni di gas serra rispetto ai livelli del 1990, almeno il 32% dell’approvvigionamento energetico prodotto da energie rinnovabili e almeno il 32,5% di miglioramento nell’efficienza energetica. La Banca Europea per gli Investimenti (BEI), dal canto suo, ha annunciato che interromperà i finanziamenti alle fonti fossili, compreso il metano, a partire dalla fine del 2021, e che investirà circa mille miliardi di euro fino al 2030 in iniziative sul clima.
Negli Stati Uniti, il presidente Joe Biden ha recentemente annunciato l’obiettivo di ridurre le emissioni di gas serra del 50-52% rispetto ai livelli del 2005. Il primo ministro giapponese Yoshihide Suga punta a ridurre le emissioni del 46% entro il 2030 rispetto ai livelli del 2013, mentre il primo ministro del Canada Justin Trudeau ha detto che, sempre entro il 2030, vuole ridurre le proprie emissioni del 40-45% rispetto ai livelli del 2005.
Allo stesso tempo, però, diversi Paesi emergenti, specialmente in Asia, sono ancora molto dipendenti dal petrolio e si prevede che nei prossimi anni la domanda di oro nero possa aumentare sensibilmente in quest’area del mondo. La Cina, per esempio, che ad oggi è il primo Paese per emissioni totali di gas serra, ha fatto sapere che raggiungerà il proprio picco di emissioni nel 2030, per poi arrivare entro il 2060 alla neutralità carbonica (con dieci anni di ritardo rispetto alle altre grandi potenze mondiali).
E i Paesi produttori?
Secondo un recente rapporto del think tank Carbon Tracker, a livello mondiale le nazioni esportatrici rischiano di perdere complessivamente 13.000 miliardi di dollari entro il 2040. Nel dettaglio, i 40 Paesi le cui economie sono fortemente dipendenti dalle esportazioni di combustibili fossili andranno incontro a un calo medio del 46% delle entrate previste da petrolio e gas, pari a un deficit di 9.000 miliardi di dollari, stima lo studio.
Naturalmente gli Stati più a rischio sono quelli più poveri – il report cita Ghana, Uganda e Guyana. Il problema non è marginale: le conseguenze geopolitiche del Green Deal andranno in qualche modo gestite. Per esempio, suggeriscono il think tank Bruegel e lo European Council on Foreign Relations, l’Europa, che rappresenta circa il 20% delle importazioni globali di petrolio greggio, dovrebbe aiutare i Paesi produttori, in particolare quelli africani, a diversificare la loro economia, orientandosi verso la produzione di energia rinnovabile.
Insomma, la strada verso un’economia globale meno dipendente dal petrolio sembra tracciata: con le energie rinnovabili e le relative tecnologie destinate a dominare sempre più i sistemi di approvvigionamento energetico, le relazioni tra gli Stati cambieranno, mentre le economie e le società subiranno trasformazioni strutturali, scrive l’ISPI. Ma non sarà un percorso breve. Né lineare. Per molti anni a venire, il petrolio sarà ancora al centro delle nostre economie e delle relazioni internazionali.