Clima, sfide e opportunità dopo il summit “made in US”
Stretta è la via che porta a una crescita economica veramente sostenibile. Perché oggi siamo di fronte a quello che, a una prima lettura, ha tutta l’aria di un rompicapo. E cioè: come può un qualunque Paese diventare “green” mantenendo soddisfacenti tassi di crescita economica? Non rischiamo forse di rimandare il cambiamento a data da definirsi pur di non rinunciare a preziosissimi punti di Prodotto Interno Lordo? E con quali conseguenze, per tutti noi e per le generazioni future?
Questi gli interrogativi all’indomani del vertice sul clima convocato dagli Stati Uniti in occasione della Giornata Mondiale della Terra, il 22 aprile 2021. Un vertice dal grande valore simbolico, attraverso il quale l’amministrazione Biden ha voluto rilanciare la leadership USA nella lotta contro i cambiamenti climatici e a favore dell’ambiente. Ma di altrettanto valore sul piano concreto? Vediamo.
Il dilemma della crescita (e della sostenibilità)
Al summit “Restore our Earth” sono intervenuti, fra gli altri, il capo del Cremlino Vladimir Putin e il presidente cinese Xi Jinping. Due presenze tutt’altro che scontate, considerando le tensioni tra gli Stati Uniti e ciascuna delle due potenze. Eppure, i due leader c’erano. Segno di un profondo desiderio di impegnarsi a ridurre le emissioni di carbonio fino al fatidico zero netto? Sì, la consapevolezza dell’importanza di tale obiettivo c’è ed è condivisa. Ma nei cuori di molti continua ad albergare una paura.
E cioè che transitare verso un modello economico sostenibile voglia dire abdicare almeno in parte alla crescita economica. Xi Jinping, per esempio, ha ribadito che Pechino raggiungerà il picco delle emissioni entro il 2030 per poi ridurle progressivamente a zero entro il 2060. Come a dire: la priorità resta per noi la crescita economica. E così la pensano altri emergenti fortemente inquinanti, vale a dire India e Brasile, che pur presenti al vertice non hanno annunciato alcun impegno.
Cina sotto i riflettori: ma il taglio alle emissioni può attendere
È la Cina, in ogni caso, che continua a detenere il primato delle emissioni di anidride carbonica: secondo quanto evidenzia l’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI), ancora oggi oltre il 50% dell’energia necessaria al Dragone arriva dal carbone, di cui peraltro il Paese è produttore. Una delle soluzioni individuate è quella del cosiddetto “carbone pulito”, che comunque inquina. Non solo Pechino: lo stesso Biden è alle prese con un Congresso diviso tra Democratici e Repubblicani (questi ultimi “un pò meno green”).
La transizione ecologica riserverà pure “straordinarie opportunità economiche”, come ha detto Biden, ma ai Repubblicani – come del resto all’ex presidente Trump – non piace una strategia che penalizza il settore petrolifero e limita le emissioni a fronte di una Cina che almeno per altri 10 anni continuerà a crescere e a inquinare. Insomma, per il presidente Biden – che ha annunciato il dimezzamento delle emissioni di gas serra rispetto ai valori registrati nel 2005 entro il 2030 e le zero emissioni nette non oltre il 2050 – non sarà facilissimo tramutare le promesse in legge.
E l’Europa che fa? Le sfide del Vecchio Continente
D’altra parte, anche rimandare o rinunciare del tutto all’obiettivo avrà un suo prezzo. “Se le nazioni non riusciranno a impedire l’aumento delle temperature di oltre 1,5 gradi Celsius rispetto ai livelli preindustriali”, scrive l’ISPI, “l’economia mondiale subirà 23 trilioni di dollari di perdite entro la metà del secolo”. Perdite dovute – secondo un rapporto a cura di Swiss Re – a disastri naturali, malattie e nuove epidemie.
“La lotta contro il cambiamento climatico sarà il motore della ripresa economica”, ha detto la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen, intervenuta al summit poche ore dopo l’approvazione della legge europea sul clima. Una legge che fissa l’obiettivo della neutralità climatica entro il 2050 e del taglio di metà e più delle emissioni inquinanti (dai valori del 1990) entro il 2030. Ma sono obiettivi a livello UE e non per i singoli Stati membri. E, come spiega l’ISPI, resta ancora tutta da affrontare la questione dei sussidi ai combustibili fossili.
Nel frattempo, cosa può fare un investitore?
Innanzitutto, continuare a seguire quel che si muove sullo scenario globale: il prossimo appuntamento, nel 2021, è la Conferenza sul cambiamento climatico delle Nazioni Unite (COP26) a Glasgow, a novembre. Ma è utile anche ricordare da dove siamo partiti. In principio fu l’Accordo di Parigi, correva l’anno 2015. L’adesione dei governi mondiali a questa intesa è stata negli ultimi sei anni abbastanza discontinua, gli Stati Uniti con l’ex presidente Trump si erano addirittura sfilati. Resta il fatto che l’Accordo di Parigi ha definito un quadro globale anche per chi, investendo, desidera rispondere alla sfida climatica.
Esistono sul mercato diverse soluzioni in linea con gli obiettivi di transizione verso un’economia a basse emissioni che non lasci indietro lavoratori, consumatori e comunità locali. E si vanno sempre più affinando i criteri e i metodi per la messa a punto di queste soluzioni, basati sul filtro ESG: Environment, ambiente, Social, sociale, e Governance, che attiene alla gestione aziendale.
Il tutto senza rinunciare al rendimento. Al contrario di quanto si tende a credere, infatti, investire con un occhio alla responsabilità ambientale, sociale e gestionale non comporta la rinuncia alle performance, anzi: negli anni vari studi hanno dimostrato come le aziende al top per rispetto degli impegni ESG siano quelle che presentano i risultati finanziari più robusti e interessanti. Come dire: chi fa bene sul piano della sostenibilità tende a far bene sempre.
Insomma, l’ESG è una galassia che vale la pena di esplorare. Meglio se con la guida di un professionista esperto, che abbia l’esperienza e la competenza per distinguere quelle Società di Gestione del Risparmio tra chi è davvero “green” e quelle chi, invece, ci fa solamente che lo sono solo in apparenza.