Activity bias
“Non c’è nulla di così terribile come il darsi da fare senza avere una visione”: è un aforisma, questo, generalmente attribuito a Johann Wolfgang von Goethe, scrittore, poeta e drammaturgo tedesco. E non c’è nulla – forse – che descriva con altrettanta precisione una distorsione cognitiva tipica di noi esseri umani: stiamo parlando dell’activity bias, ovvero della tendenza a favorire l’attività all’inattività, specialmente nei momenti di stress.
Che ci piaccia o no, abbiamo tutti grande familiarità con questa distorsione. Ci scatta, infatti, quando ci pare che le cose non vadano proprio come vorremmo: in quei momenti, la nostra prima reazione è dire a noi stessi “dobbiamo fare qualcosa”. E ce lo diciamo con una certa convinzione prima ancora di capire che cosa, esattamente, sarebbe opportuno fare.
Un bias “salvavita”… ma non in tutte le occasioni
Il guaio è che spesso e volentieri questo bias ci salva dai guai. Se avvertiamo che la nostra automobile fa quel certo rumorino mentre va, corriamo subito a portarla dal nostro meccanico di fiducia che a volte non riscontra la benché minima anomalia, ma altre volte ci dice che in effetti sì, c’era quella certa cosa che andava messa a posto. Aver agito tempestivamente per risolvere la situazione e averla di fatto risolta ci gratifica: il che rafforza in noi il bias dell’attività.
Ma se anche non fossimo riusciti a concludere nulla, saremmo comunque felici: l’aver fatto qualcosa, anche se senza profitto, ci risparmia infatti l’imbarazzo di essercene rimasti con le mani in mano. E il punto è esattamente questo: l’attività è associata a un valore positivo – al successo, alla gratificazione, alla soddisfazione e alla felicità – mentre l’inattività è connotata negativamente, sottintendendo pigrizia, sciatteria, negligenza, indifferenza. Tutto bene, quindi? No. Perché l’activity bias può talvolta rivelarsi un avversario piuttosto che un alleato, inducendoci a fare qualcosa di sciocco. Quando non, addirittura, penalizzante o dannoso.
Activity bias: da alleato ad avversario è un attimo
Per esempio, quando in strada sorpassiamo un veicolo credendo di guadagnare tempo per poi ritrovarci, pochi metri più in là, fermi all’incolonnamento successivo. O quando sgomitiamo per salire per primi sull’aereo che ci porta in vacanza come se questo ci garantisse il posto migliore o un anticipo sull’orario di arrivo a destinazione (tralasciando tutto il discorso sul bagaglio a mano, che invece può giustificare qualche sgomitata ma solo se si esagera con le dimensioni del trolley). E qui siamo nel campo delle cose tutto sommato trascurabili.
Poi arrivano le penalizzazioni un po’ più serie. Questo, come ben sappiamo, è stato l’anno degli Europei di calcio. E pensate: uno dei classici studi sull’activity bias riguarda proprio i portieri e i calci di rigore che tentano di parare. Quando cercano di fermare la palla, generalmente i portieri si tuffano da una parte o dall’altra, cosa che facilita il compito di chi il rigore deve calciarlo: insomma, ci vuol poco a capire che se il portiere si tuffa, basta buttare la palla dritta nel mezzo. Non sono chiacchiere: esiste uno studio di un gruppo di psicologi israeliani, che risale al 2007, secondo il quale, a fronte di 286 calci di rigore, i portieri si sono tuffati il 94% delle volte, per quanto l’approccio statisticamente ottimale sarebbe stato quello di restare fermi[1]. Vi sorprende? Eppure, pensate: è quello che gli investitori fanno continuamente.
Come si rivela l’activity bias negli investimenti?
Ebbene sì: anche l’investitore è perseguitato dalla sensazione che sia sempre meglio fare qualcosa piuttosto che starsene fermi, buoni e tranquilli. “Piuttosto che niente, è meglio piuttosto”, recita un famoso detto in alcune aree del nord Italia. Il rovescio della medaglia, in questa massima del buon senso popolare, si rivela nel momento in cui un investitore alle prime armi si fa prendere la mano dall’ansia o dall’euforia: ergo, vende quando i prezzi scendono (quindi, di fatto, a sconto) o compra quando i valori salgono (dunque con un sostanziale sovrapprezzo). L’esatto contrario, insomma, di quel che andrebbe fatto.
Si tratta di un fenomeno che Dalbar, società indipendente di ricerca sugli investimenti[2], da anni monitora e misura nel suo rapporto annuale Quantitative Analysis of Investor Behavior, o QAIB. Anche l’edizione più recente conferma come gli investitori siano il più delle volte i loro peggiori nemici: soccombono spesso a strategie di breve termine come il market timing o la caccia alla performance non sapendo esercitare su sé stessi la disciplina necessaria a cogliere i benefici che i mercati possono offrire su orizzonti temporali più lunghi. Dall’edizione 2021 è arrivata la conferma che gli investitori di fondi che non si sono concentrati sulle oscillazioni del mercato hanno avuto molto più successo di quanti invece hanno lasciato che le loro emozioni prevalessero sulla strategia a lungo termine.
Difendersi dagli effetti deleteri dell’activity bias: come?
Più spesso che no, infatti, il bias di attività determina rendimenti più bassi. La raccomandazione è quindi sempre quella: mantenere i nervi saldi e rimanere fedeli alla strategia d’investimento scelta. In caso di dubbi o timori, meglio rivolgersi a un buon consulente finanziario che potrà analizzare al meglio il contesto finanziario e suggerire, se necessario, eventuali revisioni o cambiamenti del nostro portafoglio.
[1] https://www.sciencedirect.com/science/article/abs/pii/S0167487006001048?via%3Dihub
[2] https://www.dalbar.com/qaib/index